Il grande riscatto. Un'avventurosa evasione da un carcere cileno nel 1996

12,00 €
Tasse incluse

Autore: Ricardo Palma Salamanca - 2010 - ISBN 88-86345-99-2 - Colibrì

Titolo originale El Gran rescate Prima edizione LOM Ediciones, Santiago del Chile, Dicembre 1997 Cosa intendere per libertà? Il quesito impone per un verso di misurarsi con secoli di laboriose speculazioni filosofiche, in cui il valore intrinseco dell'iniziativa umana si stempera nella trappola del determinismo e della predestinazione oppure, di volta in volta, si esalta nel volo dionisiaco del sovrumano sogno nietzschiano. In ogni caso, con queste premesse, si perde apparentemente di vista ciò che, in queste pagine, viene invece concretamante posto in risalto in una dimensione più immediata e sincera: l'agognato spicchio di azzurro ritagliato nella volta celeste, dal tetro profilo delle mura di un carcere, nello sguardo dell'uomo prigioniero, cui si impone, come finalità suprema, l'esigenza irrinunciabile della fuga. È possibile conciliare in una sintesi superiore queste due visioni del mondo così irriducibilmente antitetiche? È possibile concepire la situazione esistenziale dell'uomo contemporaneo sotto specie di una reclusione universale in cui l'evasione diventi l'unico tramite possibile di un'eventuale produzione di senso? In cui, in breve, la ricerca di un altrove utopico e sognante consenta di individuare nella fuga, tra le macerie di un nichilismo ineludibile, il rinnovato movente di un significato rigeneratore? O non è forse questa complementarietà tra carcere e fuga, questo eterno movimento dialettico tra reclusione e libertà, a costituire la definitiva prigione da cui non si dà scampo possibile? Il punto e proprio questo: sognare la fuga dall'interno del proprio carcere costituisce contemporaneamente la propria salvezza e la propria inesorabile condanna, e l'eventuale successo del progetto di evasione, su cui si fonda la propria motivazione esistenziale, si risolve, come in un diabolico gioco di specchi contrapposti, nella sconsolante scoperta di un orizzonte ancora più vasto di obblighi e divieti, cui in ultima analisi è impossibile sfuggire. Il teatro di questo racconto cileno, al di là di queste argomentazioni, ha soprattutto il merito di restituire il desiderio di libertà alla dimensione soggettiva dell'attimo fuggente: sottrae difatti l'espediente della fuga alla schiavitù della necessità storica, e lo spicchio di cielo rubato alla tautologia cosmica ritorna ad essere, nel nostro incerto presente, l'unico sollievo possibile. Prefazione di Ricardo Palma Salamanca Vivevamo nella nostra età dell'oro, pieni di fulgore, cantavamo le vittorie di un mondo che non siamo riusciti a costruire. Eravamo i maghi di un impero di aneliti, ci rivolgemmo all'Uomo, ritornammo al silenzio che ci vide nascere, ci disgregammo come materia al vento. Ci trasformammo in asceti della disperazione e percorremmo tutte le montagne della terra in cerca di una risposta, una scheggia di verità, un "frego" di certezza. Il fucile non fu nient'altro che un utensile dell'epoca, la morte un mero precedente scritto sulla sabbia delle spiagge. Disegnavamo sulle nuvole e vedevamo il riflesso di quel che lasciammo dietro di noi. Scrivevamo versi epici sul filo della spada, prima che fendesse il cuore dell'assassino. La bellezza? Della vita facemmo un verso grande e prolungato, sfaccettato in corpi trasparenti. Eravamo poeti che la storia spinse a sfidare il mostro: ed era giusto, gloriosamente giusto, semplicemente era il cammino da intraprendere... Quel pomeriggio volammo, ci strapparono con la furia di un tifone marino dalle mille teste, sparammo a raffica finché il nostro pianto di isteria spense il tramonto. Eravamo invincibili. Non discutevamo delle migliori condizioni per la Rivoluzione o degli andirivieni emozionali del proletariato, e meno ancora delle ancestrali categorie del marxismo scientifico. Eravamo solo la nostra storia e il vento furibondo. Ci liberammo di un sistema mortifero, una struttura politico-architettonica disegnata per coloro che vivono al di sopra della nozione politiche delle "masse". Coloro che sollevano la testa per vedere più in là del rumore turbolento delle moltitudini furibonde, sono destinati ad attraversare i cammini più paludosi che questa strana dimensione mette a disposizione. Iniziammo la guerra quando eravamo bambini, diventammo adolescenti in mezzo ad assalti e imboscate, crescemmo nel cuore del drago, vedemmo morire i nostri fratelli e saltammo, saltammo così in alto che il sole non riuscì più a distinguere la nostra silhouette in mezzo alle stelle. E già eravamo uomini, più vecchi, più stanchi, un po' meno caparbi ma non ci scordavamo di quando avevamo cominciato la guerra, come bambini con le lance in spalla, osservando la sera che scendeva. Parlo per me stesso e per coloro che ho visto nascere e morire. Ma ognuno di noi, i sopravvissuti di una tribù che si rifiutò di perire con condiscendenza e in silenzio, conserva un universo dentro di sé, conserva il valore inestimabile di aver resistito all'ordine imposto dai piraña. Distruggemmo tutto quel che potemmo distruggere, incendiammo città con la lieve e facile speranza che da quelle ceneri si levassero uomini e donne libere, nel senso più ampio del concetto. Uomini e donne capaci di sollevarsi così in alto che la propria individualità finisse per confondersi con i limiti del pianeta. Ogni meta-racconto, ogni storia è piena di insuccessi ed errori. Ognuno ha la propria divinità, ognuno stabilisce una relazione con ciò che, razionalmente, non costituisce che una prima necessità materiale. Ci trasformammo in mistici di un'era tecnologica, quando decidemmo di far della vita una gran tela che piangeva acquerelli.La nostra storia sta lì. E anche la nostra vita. Se i libri servono a qualcosa, che sia per farci capire che la vita è il senso delle parole che si piangono, e che dicono che stiamo soffrendo, e che ridono, e che alla fine di ogni cammino nemmeno la più sottile malinconia potrà convincerci dell'inanità delle nostre vite. In una qualunque parte del mondo Novembre 2009

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