Argentina. Viaggio al "fin del mundo" (forse)

14,00 €
Tasse incluse

Autore: Gaspare De Caro - 2011 - ISBN 978-88-97206-02-6 - Colibrì

Ci sono molti modi di viaggiare, a seconda soprattutto del piacere che ci si aspetta dal viaggio. Il piacere ­ incluso, ma non necessariamente, il piacere di vedere e capire ­ è in effetti inseparabile dal viaggiare, è la sua ragion d'essere e la sua misura: senza piacere niente viaggio. Perciò non si possono definire viaggio le diaspore e le migrazioni, che non piacciono a nessuno, tanto meno ai protagonisti. Oggi si preferiscono itinerari con tempi alquanto sbrigativi, il viaggio è sempre più fonte primaria di piacere, in grado di soddisfare ogni fantasia dell'edonismo ma anche le più sofisticate necessità culturali. Il piacere di viaggiare non è riservato ai soli ricchi, si è molto democratizzato: se solo non state morendo di fame ­ in caso contrario vi resterebbero appunto le migrazioni ­, in qualunque parte del mondo viviate c'è sicuramente un'agenzia di viaggi disposta a portarvi dove essa vuole, con piena soddisfazione anche della vostra eventuale sete di conoscenza. L'indifferenziata definizione, proposta nel 1963 da una dichiarazione delle Nazioni Unite, secondo la quale è turista chiunque si fermi anche per un solo giorno in una città diversa dalla sua senza motivi commerciali o di lavoro ci sembra ormai insoddisfacente. Si potrebbe definire "viaggio" l'esperienza che modifica il soggetto e "turismo" quella che altera l'oggetto. Si consideri per esempio l'etnoturismo, variante fondamentalista del turismo culturale, che vuole essere una modificazione di sé spinta sino all'identificazione con l'oggetto. L'etnoturismo allora è un tipico caso di viaggio piuttosto che di turismo? La questione è alquanto problematica bisognerebbe interpellare l'"oggetto" in questione e capire l'attenzione o l'alterazione a cui è sottoposto. Il libro di De Caro illustra il tentativo di un itinerario argentino fedele, nelle intenzioni, ad una scelta tra l'opzione del viaggio e quella del tour, incline a mete, percorsi e modi alternativi a quelli rituali e collettivi. Conforme a tale criterio è la rinuncia a parlare di Buenos Aires. Non si può parlare, se non dopo un lungo soggiorno, di un agglomerato urbano di dodici milioni di abitanti, una megalopoli tumultuosa, caotica, pericolosa, indecifrabile alle note rapsodiche del viaggiatore. In un viaggio di alcuni mesi è sembrato più accessibile cercar di capire l'Argentina dal punto di vista della sua periferia, dell'"Interior", sempre antagonista del "Centro". L'80 per cento della popolazione argentina si concentra nelle aree urbane con il mostruoso addensamento del 50 per cento a Buenos Aires e nella sua provincia, mentre a fronte di una disoccupazione ufficiale di un 9.8 per cento solo il 5 per cento della popolazione trova impiego nell'agricoltura nonostante gli immensi spazi disponibili e l'inesauribile varietà di condizioni climatiche favorevoli. I dati rinviano chiaramente ad una perversa divisione e gestione della proprietà, causa diretta anche di improvvide scelte economiche alternative, dissipatrici delle risorse del Paese, come appunto il turismo di massa o il saccheggio del patrimonio ambientale. Un aspetto ulteriore ha evidenza diretta e peculiare nella periferia argentina, un problema rimasto aperto a centotrenta anni dalla sua "soluzione definitiva". Il barbarico genocidio della "barbarie indígena" e cioè l'esistenza di ventiquattro "pueblos originarios" in ventitré Province ­ di mezzo milione di aborigeni, tuttora largamente sentite come differenza e sviamento ­ scrive Gabriela Karasik ­ "en relación al modelo "nacional" en lo económico, lo social y sobre todo lo cultural". Anche di questo si parla a lungo mentre si percorre il Paese in aereo, in auto, in colectivo, in barco, dalla Pampa alla Mesopotamia, dal Noroeste a Cuyo, a Ushuaia fin del mundo.

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