Donne e bambini nella tradizione sociologica
Autore: Mary Abby van Kleeck - 2020 - ISBN 9788885863668 - Kurumuny
Autore: Roberto Sardelli - 2013 - ISBN 9788895161921 - Kurumuny
STORIA DI UNA NUOVA UMANITà TRA LE BARACCHE DELL'ACQUEDOTTO FELICE A ROMA
Autore: Roberto Sardelli
ISBN 978-88-95161-92-1PUBBLICATO IL: 01-03-2013 cm. 13x19 280 PAGINE€ 14,00
Alla fine degli anni Sessanta (1968) un giovane prete, don Roberto Sardelli, fresco di seminario, formatosi poi alla scuola di don Milani, si è battuto per il riscatto esistenziale e morale dei baraccati di Roma. Coerente con la sua scelta di vita decise di andare a vivere nelle baracche vicino all’Acquedotto Felice proprio perché tra i baraccati, i suoi veri parrocchiani, più autentica sentiva la sua missione: don Roberto abbandonò ogni tipo di copertura clericale, ogni privilegio, e testimoniò una condivisione della loro esistenza, delle loro incertezze, delle loro speranze, delle loro lotte. Scrive don Sardelli “occorreva aprire una pagina completamente nuova che restituisse dignità alla scelta di un prete e dignità alle persone cui egli si rivolgeva” e “incidere su una coscienza narcotizzata dallo stigma dell’esclusione. Ridestare dal sonno la coscienza e condurla a mostrare con orgoglio quello che si era nella realtà e a non nascondersi umiliati, coperti di vergogna”. Così animato da “un lampo di follia creativa” Roberto Sardelli fondò la Scuola 725, cosiddetta dal numero civico della baracca che la ospitava, e propose lo studio come leva per uscire da una situazione umiliante in cui la città li aveva gettati. Studio a tempo pieno: non solo per recuperare gli anni perduti in una scuola pubblica che li considerava ragazzi perduti ma aiutare quei giovani a prendere coscienza della situazione che li aveva discriminati con l’obiettivo di riconquistare dignità e umanità a chi era stato relegato ai margini della società. Questo obiettivo fu recepito e un giorno i ragazzi della Scuola 725 scrissero una lettera aperta al sindaco Clelio Darida per denunciare la grave situazione abitativa per la quale la loro comunità soffriva da troppo tempo. Uno dei paragrafi di questa lettera recita così: “Il luogo dove viviamo è un inferno. L’acqua nessuno può averla in casa. La luce illumina solo un quarto dell’Acquedotto. (Dopo venticinque anni, nel 1970, è arrivata la luce elettrica. L’abbiamo presa con un attacco abusivo. Per questo siamo stati tutti denunciati dal Comune). Dove c’è la scuola si va avanti con il gas. L’umidità ci tiene compagnia per tutto l’inverno. Il caldo soffocante l’estate. I pozzi neri si trovano a pochi metri dalle nostre cosiddette abitazioni. Tutto il quartiere viene a scaricare ogni genere di immondizie a cento metri dalle baracche”. Nonostante siano passati anni dall’esperienza della Scuola 725, Vita di Borgata è un libro attuale, che, mutatis mutandis, ci racconta quelli che sono ancora oggi i problemi di un Paese che annaspa e fatica a trovare una via d’uscita da una crisi che non è solo economica ma soprattutto culturale, etica e sociale. Don Roberto ci insegna che la scuola è prioritaria sempre, anzi maggiore è il disagio socio-economico e maggiore è la necessità di un luogo dove si formino le coscienze, dove acquisire gli strumenti per la propria emancipazione, per costruire il proprio futuro, dove imparare a declinare la propria libertà. E quelle baracche dove vivevano cittadini italiani, in buona parte abruzzesi di origine, sono state sostituite altrove da altre baracche, dove vivono altri cittadini italiani ma di un’etnia diversa: i rom. E dalla parvenza di legalità delle murature realizzate tra gli archi dell’Acquedotto Felice si è passati all’illegalità da sgomberare delle lamiere messe insieme a ridosso delle sponde dell’Aniene o nei vuoti urbani, negli spazi abbandonati al degrado, da ripulire senza troppi scrupoli. “Proprio ora occorrono lampi di follia creativa. Purtroppo noto in giro troppe braccia penzoloni e altre pronte a rattoppare i guasti isolati e moltiplicati dalla crisi… Addormentati dalla cultura amnestica, non siamo più in grado di attingere dal “fu” e di raccogliere quel filo rosso che abbiamo lasciato cadere, ma che solo ci permetterebbe di ritrovare la follia là dove, impaurita, si è annidata. Ci resta difficile capire che la profezia ha il suo terreno di cultura nella privazione. Insomma viviamo un tempo triste, ma è anche l’occasione buona per costruire, e la scuola resta lo spazio principe per dare radici al progetto”.
Donne e bambini nella tradizione sociologica
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